La fortuna di essere una nazione insulare protegge il Giappone dalla decadenza del senso di cittadinanza.
Dynamic Wang
IT 290 2022
Giappone a doppia mandata
Alessandro Mavilio

Vivere in Giappone (anche solo da residente e non da cittadino) assicura una certa protezione dal decadimento dei costumi internazionali.

Uno dei più deleteri effetti della globalizzazione è proprio l'annientamento dei confini geo-politici, l'annientamento delle distanze e delle separazioni naturali tra aree culturali, e dunque l'annientamento del set di diritti e dei doveri (di residenza o cittadinanza, che siano) normalmente e secolarmente collegati al proprio senso di appartenenza a una data cultura o a un'area produttiva.

Avendo sperimentato come tanti e sulla propria pelle la lunga rivoluzione tecnologica del XX secolo, posso individuare nella mia mente la catena di eventi (e novelle distrazioni) che ha portato l'Occidente al decadimento del suo senso di cittadinanza e di identità locale, familiare e personale.

Ricordo precisamente lo stordimento e la brillantezza dell'escalation tecnologica e comunicativa alla quale anche io sono stato esposto da ragazzino.

Dal televisore in bianco e nero a quello a colori, dalle sole tre reti televisive nazionali all'aggiunta di altre tre commerciali, la moltiplicazione di canali locali, l'abusivismo radiofonico per accaparrarsi le frequenze, i programmi televisivi che su alcune reti iniziavano solo verso le 11 del mattino fino alla programmazione H24 senza più un "intervallo". E contestualmente pubblicità e pubblicità che modificavano il pensare e sentire quotidiano, l'arrivo dei videogiochi in casa e poi dei telefoni cellulari e dell'antenna parabolica con le quali bagnarsi di culture, gusti e messaggi lontani.

Tutto era selvaggia e spericolata inclusione.

E' stato senza dubbio tutto sfolgorante, una bellissima ubriacatura di suoni e colori. Ma è anche vero che da ubriachi si fanno tanti errori di valutazione: causa ed effetto vengono percepiti su una scala temporale falsata, una scala su cui il nostro percepire, pensare e controagire non saranno mai più al passo con il dispiegarsi degli eventi attorno a noi.

E' lampante, dopo trent'anni da quella ubriacatura, rendersi conto che qualcuno ha violato l'originale integrità del povero ubriacone, instillando nella sua mente programmi culturali, economici ed egemonici precisi.

Tra questi, la rinuncia forzata all'identità culturale.

L'Occidente ha protetto la sua identià continentale, regionale, nazionale - forse anche fortunosamente - per secoli, riuscendo a galleggiare sulle onde caotiche di qualunque altro conflitto e riprendere la sua navigazione.

L'olandese che sopravviveva alla I Guerra Mondiale, si ritrovava forse stracciato ma pur sempre olandese, l'italiano che sopravviveva alla II Guerra Mondiale, tornava a fare l'italiano. Oggi - dopo trent'anni di esposizione all'inclusivismo totale - perfino il napoletano (per citare l'esponente di una cultura microscopica su scala mondiale) non è più napoletano.

Non mi interessa qui criticare questo deleterio processo di dissoluzione e sovvertimento, giacché i suoi risultati sono sotto gli occhi di tutti, ma mi premeva appuntarmi come la fortuna di essere una nazione insulare protegga il Giappone da questo tipo di decadenza interiore delle masse.

Non che il Giappone non sia stato bombardato, esposto (o non si sia volontariamente esposto) alla stessa doccia alcolica e orgiastica di colori e mode estere, ma forse lo ha fatto confidando in (o trovandosi salvato da) un qualche "enzima geo-politico-culturale", proprio come coloro che possono fumare e bere per tutta una serata senza trovarsi schiavi di un vizio il giorno dopo.

A dire il vero, ai miei occhi ciò che sembra un processo di consumazione o decadimento sembra aver luogo anche in Giappone, ma a ben vedere si tratta di una sorta di spazzolatura/lucidatura dei "termini che fanno il cittadino giapponese".

Ascolto spesso i discorsi dei giapponesi in treno o trattoria e molto spesso tra di loro si fanno discorsi del tipo: "Vedi, i Giapponesi sono precisi e quindi è normale che..." oppure "Noi Giapponesi siamo timidi e dunque...". Trovo molto curioso che questo tipo di frasi sia scambiato tra appartenenti di una stessa etnia, non può dunque essere che un processo di lucidatura reciproca dei termini.

Non ho mai ascoltato discorsi simili tra italiani, se non di segno opposto, demolitorio.

Certamente il giapponese di oggi è diverso da quello del passato, ma il modulo passato è tenacemente conservato: una sorte di sindrome virtuale dell'accumulo. Il giapponese più moderno di oggi è ancora nell'intimo un pescatore, un coltivatore, un militare, un prete...


Come accennato, a proteggere il Giappone geograficamente è senz'altro la sua insularità, caratteristica che non permette con facilità il riversarsi di importanti flussi immigratori illegali. La stessa insularità mantiene forte il senso giapponese di sacralità dei territori a propria disposizione.

Questo senso sacrale dei confini (imposti dal mare di Dio) rende molto difficile sbiadire i confini nazionali in nome di qualunque assurdo trattato politico con gli Stati geograficamente più vicini. O meglio, se mai qualcosa del genere avvenga, resta un accordo... virtuale che non sovrascrive la realtà tangibile dei fatti.

Insomma, se un napoletano può oggi decidere di sentirsi italiano (magari anche per sfuggire all'abbraccio soffocante di una cultura forse ritenuta anacronistica o minore o inferiore), un caprese o un procidano dovranno prima di tutto sentirsi napoletani, per poi, eventualmente, aspirare a sentirsi italiani, o europei o "cittadini del mondo".

Questo per dire che l'isola ostacola in primo luogo (e fortunatamente) alcuni processi di politicizzazione e culturalizzazione. Ma il Giappone dimostra anche che l'isolamento geografico non necessariamente ostacola i processi economici o di evoluzione tecnologica. Si riscrivano dunque i propri appunti: le "lontane isole del Pacifico" non sono tutte luoghi di sabbia, mare e bermuda.


L'isola è un concetto non molto diverso da quello di "globo". Nascere isolani è come nascere... Terrestri: per gli isolani interviene prima il riconoscimento dei - e la riconoscenza ai - confini fisici più immediati e solo successivamente fanno breccia le costruzioni culturali (endogene) o politiche (esogene) per la generazione di un senso di residenza e cittadinanza.

Mi piace pensare che millenni fa i Giapponesi abbiano coscientemente deciso di stabilirsi su un territorio fatto di isole proprio dopo aver osservato cose accade / quanto sia difficile conservarsi integri sulla terraferma. Essere ospiti in Giappone, o risiedervi lungamente o anche esserne cittadini/sudditi non è poi diverso dal trovarsi a bordo di una flotta perennemente al largo. Qui a bordo il tempo può scorrere diversamente e per forza di cose si è costretti a preservare una gerarchia integra che può comunicare con la terraferma ma da essa non si fa annichilire.


Un altro super-potere giapponese è poi il suo sincretismo, che oggi come mai, gli viene in aiuto per doppiamente proteggerlo dalle frasi sconnesse e dalle gomitate convulse delle altre nazioni occidentali, in preda alla loro spirale di auto-annientamento.

Ciò che di esterno viene adottato dal Giappone viene da sempre integrato celermente e per estremo utilitarismo, ma la dismissione di qualunque oggetto culturale non è mai veloce come la assunzione originaria. Mi sembra di poter dire che il Giappone ritiene quasi tutto e produce molti pochi scarti, forse anche grazie alla sua capacità di compattazione (un vero e proprio dono).

CONTINUA