Un canale giapponese e perfettamente tradotto che giunga a occhi e orecchie degli stranieri non durerebbe una settimana.
Photo by Nsey Benajah
IT 331 2021
Teenage Mutant Ninja Turtles
Alessandro Mavilio

In un universo/mondo che a velocità sempre più esponenziale crea, adatta, traduce, riutilizza, sfrutta ogni “segno” partorito, stampato e consegnato in ogni angolo del mondo per “infettare” a più non posso ogni altro angolo del mondo con rivoli e cascate di “senso” spesso imponderabili, e il fatto che invece alcune zone della “media-sfera” restino “asciutte”, o quanto meno dimostrino una repellenza di sorta, vorrà pur dire “qualcosa”.

Per prima cosa interroghiamoci su quanto l’ “impeto creativo” sul pianeta Terra fosse avanti già nel 1984 solo per aver partorito un concetto-prodotto (che ha fatto impazzire genitori e bambini) come le “Teenage Mutant Ninja Turtles”, e vi prego di notare la presenza di un termine giapponese fondamentale per il… brand. Questo per dire che al mondo non c’è evidentemente un vero limite al pensabile, dicibile e pubblicabile, soprattutto nell’ambito dell’intrattenimento. (E da allora l’impeto creativo terrestre è tanto veloce e assurdo da essere quasi fuor di percezione.)

Dopo l’esplosione delle TV satellitari, digitali, e dopo anche l’esplosione del video sul web, il mondo è pieno di canali che non fanno altro che esasperare questo processo di taglia e incolla, riciclando, riadattando e traducendo all’occorrenza stream di storie e immagini, pur di riempire i loro palinsesti e dare un senso al loro “appetito”.

Noi stessi abbiamo visto coi nostri e occhi e goduto – per portare un esempio comprensibile al nostro gruppo – l’esplosione dei cartoni animati giapponesi in Italia tra gli anni 70 e 80, e possiamo testimoniare come il fenomeno si sia allargato a macchia d’olio e quanto fosse agli occhi dell’epoca un assurdo fenomeno, culturalmente lontanissimo da noi, certamente arduo da adattare linguisticamente e culturalmente, e perfino malvisto dai nostri tutori e genitori… Eppure il Giappone non ha avuto problemi a esportare i suoi peggiori incubi nucleari o a vendere, proprio a noi, la sua versione di Pinocchio.

Ma tutto ciò funziona – secondo me – solo per quei prodotti “mediabili” che fanno parte del settore dell’intrattenimento. La “complessità della lingua giapponese” (che, insisto, è complessa solo per chi non ne ami il “codice” o la missione futura) non è certo il vero ostacolo alla mancanza di una versione speculare e multilingue dello stream di notizie dal Giappone.

Il vero ostacolo è a monte.

Il comparto dell’informazione ha il difetto genetico di pretendere freschezza e velocità di consegna. Che la lingua di partenza del nostro quotidiano “Zero” sia il giapponese o il francese, il solo fatto di dover “tradurre notizie” per fornire “il servizio” sarebbe un ostacolo e un affronto alla “missione quotidiana”, che nel caso di un giornale quotidiano, quotidiano non riuscirebbe a essere – nelle sue versioni tradotte. Chi ci prova comunque, finisce per dar vita a un servizio di “clipping” (mi pare si chiami) o a una antologia di notizie, forse meno fresche, e certamente selezionate. Per forza selezionate! Che senso avrebbe far tradurre - in ritardo e con costi inutili – quelle notizie che qualunque redattore intelligente sa benissimo non essere di nessun interesse per il mercato target “secondario”?

Dunque, solo per una questione tecnica, per una questione innata di comunicazione, io credo si possa affermare che non c’è dolo nel fatto che il Giappone, non abbia o fornisca versioni semplificate, rimescolate del suo stream quotidiano. Jeeg Robot fu una cosa, Banana Yoshimoto ne fu un’altra: le “notizie” sono tutt’altro “oggetto”, semplicisticamente: sono la versione in pigiama di un sé nazionale che – potendo evitare – non offriresti in visione al resto del mondo. (A tal riguardo e su un piano un po’ diverso, io mi auguro sempre che un qualunque talkshow italiano non giunga mai alle orecchie di un giapponese medio. Non gli servirebbe capire la lingua per rendersi conto della violenza vocale gratuita alla quale sono sottoposti i microfoni in studio! In quanto umani non facciamo una bella figura, e mi sto riferendo solo al “tono di voce” non ai “contenuti”. Dunque sì, può esistere un senso di vergogna per il settore comunicativo “domestico” di una cultura nazionale.)

Vi è poi il lato più oscuro della questione, quello per cui proprio le notizie e la rappresentazione forzatamente edulcorata che il concepire un testo, scriverlo, e farselo correggere per poterlo pubblicare, sia in ogni parte del mondo una questione ancora irrisolta di etica e onestà. Le notizie, oggi più che mai, sono l’oggetto linguistico più economico e inaffidabile che si possa scegliere per ricostruire l’immagine reale di una cultura. La sua economicità deriva soprattutto dal fatto che siano contenuti provvisori, destinati a scadere in poche ore. E non dovrei neanche scriverlo, ma è ovvio che nelle notizie si celi il morbo della propaganda e di ogni tipo di programmazione culturale necessaria a guidare opinioni e scelte dei popoli. E devo ricordare che tale “manopola”, tale timone, non si attua in ogni singola notizia, bensì nel ricorrente palinsesto che le ospita, nel network di sottofondo tra nodi testuali di una “testata”, nel suo ripetersi quotidiano e non in ultimo nella sua interfaccia grafica più generale. Cioè, la prima pagina di un dato giornale è strutturata in quel modo (sia per forma che per contenuti) per connettersi con il suo mercato culturale di riferimento e per operare l’update del firmware del lettore: qualcosa che trascende (ma sfrutta) i meccanismi ben diversi tra loro di “comunicazione e informazione”. In tal senso tutto il mondo è Paese, e non temo di passare per naif se aggiungo che i giornali siano da sempre un’arma da sempre a disposizione dei poteri politici in gioco forse a parte “la posta del cuore”. Ma poi chissà!

Discorso simile per la comunicazione televisiva. Un canale giapponese speculare ma perfettamente tradotto che giunga a occhi e orecchie degli italiani (o degli spagnoli, o degli anglofoni) non durerebbe una settimana. La struttura linguistica polimorfa della lingua giapponese, accoppiata alla sua incredibile ma bilanciata semplicità fonetica, sarebbe perfino presente in forma di “fantasma sintattico” ed esteso su tutto il palinsesto, cioè anche nelle pause, negli intervalli e nelle scelte estetiche (non per forza linguistiche!), sui in forma di colature sui lati del “contenitore generale” e forse anche in forma di “gas esausto”, come è chiamato in gergo.

Sicuramente, il sogno di una lingua giapponese tanto semplice da consentire versioni speculari e multilingue dei suoi stream quotidiani resta un bel sogno. L’intero “pacchetto” che compone un canale di comunicazione quotidiana resta un “pacchetto completo”, del quale siamo consci solo di una minima percentuale visibile dei moduli che lo compongono. E se l’ostacolo fosse la struttura linguistica del giapponese, non ci avrebbe raggiunto niente dal Giappone. Forse solo le stampe Ukiyo-e, leggere, trasportabili, fraintendibili, perfette per nutrire quell’ego Occidentale - analfabeta di base! - e che vede nell’alfabeto il vertice della sua esperienza linguistica.

La vera questione che io appunto solleverei, ma non vi invito ad aderirvi perché è una questione enorme e ormai fuor di possibilità di essere risolta collettivamente, è proprio quella della fede innata che l’Occidente ha dell’alfabeto. Dove è scritto che un sistema di scrittura tanto semplice sia la piattaforma di lancio perfetta per una data cultura e per le sue esigenze linguistiche e sociali? Se fosse per una sorta di ragionamento in stile rasoio di Occam (che io rifiuto a prescindere) per cui il sistema più “parsimonioso” è quello da preferire, allora non sarei d’accordo: 1) perché dalle lingue nascono quantomeno fenomeni sociali novelli e dunque “risparmiando a monte” avresti vicende umane “cheap”; 2) perché un tale ragionamento di parsimonia (grafica?) non dovrebbe valere per la matematica che invece si avvale di ogni segno possibile per esprimere le sue complesse necessità?

Conscio che tali argomenti di “balistica mediatica” siano comunque estesissimi e complessi, perfino al di là della questione giapponese del nostro gruppo, e oggi più che mai siano anche argomenti caldi su scala globale, e conscio che media e informazione siano le oscure sagrestie di poteri fortissimi attivi almeno da qualche secolo, mi sento di concludere solo con il mio solito complimento al sistema di scrittura giapponese.

1) Esso è in grado di compattare in molto meno spazio un articolo che in un giornale alfabetico prenderebbe molto più spazio e 2) il fatto che la lettura avvenga verticalmente consente di comporre pagine di giornale tali da essere lette “per settori verticali” e perfino in spazi ristretti, e non a braccia spalancate come invece è costretto a fare il lettore occidentale.

Se solo fossero questi gli unici due motivi per apprezzare la complessità tecnica del sistema di scrittura giapponese, a parità di risorse con una cultura alfabetica omologa, ci rendiamo conto di quanto “guadagno” abbiano procurato al Giappone in termini di:

1) risparmio di carta (uhm, no…)
2) forse, viceversa, maggior capacità di compattazione di concetti più complessi in spazi comunque ridotti (trafiletti, albi, libricini, ecc)
3) maggior lettura e circolazione di idee
4) lettura anche in spazi ristretti e condivisi (treni, tavolini minuscoli di caffè, ecc)
5) altro (pensateci voi :)

Tutta questa lettura è certamente concausa al fatto che il Giappone sia (ci piaccia o meno) il Paese più omologato del mondo.

Andatemi a trovare una donna che scrive il primo romanzo psicologico del mondo nell’anno 1000 e lo fa da una cultura per cui la scrittura è in un certo senso una… novità. Come si chiamava?

“Teenage Mutant Ninja Turtles”?

Non proprio! Ma l’impeto creativo che fece vedere la luce a “La Storia di Genji il Principe Splendente” fu certamente simile, e proprio grazie a quella complessa, plurale, “ce n’è per tutti donne comprese”, sistema di scrittura.

Ad ogni modo, pur volendo aprire il Giappone al mondo occidentale del III millennio, per fargli un servizio caritatevole, seppur non davvero richiesto, l’ultima cosa che farei è pugnalargli la lingua o amputargli il suo complesso sistema di scrittura che, guarda un po’, si è costruito da solo e coscientemente dopo millenni di pagine mai scritte.