Lettera destinata a Maurizio Borriello.
Caro Maurizio
Alessandro Mavilio

Caro Maurizio,

ho avuto questa lettera in mente per alcuni anni; negli ultimi mesi e settimane addirittura straripava dalle mie dita: le muovevo nervosamente come se le avessi già su questa tastiera. Ti avrei voluto scrivere sempre nei momenti meno indicati: in fila per imbarcarmi su un aereo o mentre inciampavo su una scala mobile. Incredibilmente ti scrivevo con una mente duplice, mentre in giapponese spiegavo a un tassista di Kyoto dove condurmi, mentre cercavo di comunicare a mia figlia il rischio di alcune sue acrobazie – senza che lei avesse alcuna lingua ancora propria… Eppure, adesso che posso finalmente scriverti, nulla più sembra straripare come prima, mesi di impulso sembrano sciogliersi come fa il sogno all’alba. Dovrò imparare la lezione una volta per tutte, stavolta o mai più nella vita: che i meccanismi mentali sono volubili, che la bendisposizione alla creazione è cosa delicata, che la comunicazione di qualcosa è qualcosa che si apre come una finestra ma non è detto resti aperta a rispettare i capricci di ciò che ci circonda. È anche questa una lezione: il genio non aspetta e non rispetta alcuna agenda. Chi seguire, dunque? Il genio o gli impigli della nostra società?

“Intuizioni precoci e scoperte tardive”. Ecco come posso oggi definire la mia più verace e attuale essenza. Scopro che il mio genio, a dire il vero da sempre riconosciutomi, è livellato da una sorta di stupidità purtroppo invisibile agli altri, che ha sempre ritardato l’attuazione delle mie intuizioni. Ne sorrido. Ma da qualche tempo cerco di capire se vi sia in questa mia condizione, ritrovata e più chiara, qualcosa di positivo, qualcosa che nel periodo attuale dei miei quarant’anni possa donarmi nuova consapevolezza e suggerirmi un rinnovato filone di pensiero e azione. Mi dico che occuparsi, accogliere e selezionare con ritardo gli argomenti che da giovane ho ignorato - e che pur distinguevano i miei coetanei (la politica, l’interesse per le droghe, il rifiuto delle autorità) – bene, tali argomenti oggi finalmente interessano me e mi distinguono, seppur rendendomi tardivo e solo, meno accompagnato. Tutti i miei contatti del passato, che mi avrebbero potuto aiutare in questa scoperta tarda degli argomenti importanti per un adulto, sono oggi persone integrate, forse vinte ma senz’altro tranquille. Ho temuto e pensato questo anche di te ma dal nostro ultimo incontro a Napoli, a palazzo Corigliano, ho capito di no. Ecco il motivo di questa lettera. Ma averti ritrovato, ancora una volta simile a me, non risolve il mio vero problema: la necessità di intavolare una discussione pratica e filosofica che accompagni l’esplorazione della vita a quarant’anni nel XXI secolo.

A parte i coetanei viventi, introvabili e sbiaditi, non vi è nessuna letteratura autorevole al riguardo. O almeno tale letteratura non mi raggiunge con naturalezza. E le opportunità di monologo o dialogo che Internet mi offre non sono più un’opzione, sia che io cerchi e trovi un compagno sconosciuto di discussione, sia che io scriva a te con la tempistica e le quantità riducenti della posta elettronica. Immagino che la discussione a due tra entità simili, come te e me, debba quanto più possibile agire in una zona franca e affidabile. Credo che la scrittura di una lettera sia ciò che più protegge questi contenuti da radiazioni non volute, invisibili le cui conseguenze sono di fatto ancora sconosciute. Una lettera resta cosa seria e affidabile. Anche se mai recapitata.

Qualche notte fa però, sotto l’evidente effetto del fuso orario d’Oriente, quello che spinge la psiche in sogni abissali, esotici e alieni, ne ho fatto uno bellissimo. Ero in grado di snocciolare concetti con le dita. Potevo proprio tenere tra le dita qualunque concetto volessi e, sia concentrando lo sguardo che distogliendolo, potevo sentire sotto ai polpastrelli ogni concetto avessi voluto: potevo propriamente snocciolare tutte le sue possibili sfumature e accezioni. Al tatto era come avere tra le dita un ragno di metallo di forma regolare, o forse un oggetto simile al modello di un atomo, o di una stella stilizzata, o forse un riccio d’acciaio con pochi ma significativi aculei. Un corpo principale quasi sferico dal quale si irradiano in tutte le direzioni degli steli con una o più sferette in punta. Poter tastare concetti e problemi mi donava una sensazione di onnipotenza e onnicomprensione; era come aver imparato una nuova lingua, aver acquisito un nuovo strumento utile e divertente. Immagina di aggiungere alla vita la gioia del Braille! Ricordo che mentre testavo e tastavo concetti molto diversi tra loro sentivo l’impellenza di svegliarmi per spiegare al più presto al mondo questa nuova possibilità. E sorprendentemente, dopo molte ore dall’essermi svegliato, questa capacità mentale non si era disciolta come neve onirica: ha resistito prima di sfumare, convincendomi che una super-comprensione dell’ovvio sia davvero possibile, che una sorta di commerciabilità, di scambio, di accordo delle funzioni, delle mansioni e delle dimensioni del fisico e dell’immateriale sia davvero alle porte del diorama storico umano.

Qualche giorno dopo bevevo in un izakaya in compagnia del mio amico Andrea e di alcuni suoi colleghi antropologi, riunitisi dopo un simposio. Sulle coppette per il sakè erano stampati due ideogrammi, che si leggono “goukai”. Sei persone al tavolo non sono riuscite a tradurre questo termine giapponese in inglese o italiano, e nemmeno i giapponesi sono riusciti a imprigionarlo in un semplice sinonimo. Potrebbe tradursi come “dinamico, allegro, risoluto, imperturbabile, coraggioso, volitivo”, ecc. Era un tipico esempio di riccio metallico, come quelli che toccavo con agio nel mio sogno, ma stavolta con un numero forse anche maggiore di steli e aghi. Avrei voluto raccontare a tutti del mio sogno ma alla fine le mie labbra hanno solo debolmente schioccato e ho lasciato perdere. Mi è sembrato aleggiare anche un diffuso divertimento dei commensali nel perdersi nei rivoli, nei bronchi, di un termine indefinibile e ramificato, e che esistano ancora persone che nelle differenze culturali e linguistiche trovino il loro souvenir esotico o al contrario l’orgoglio di un’appartenenza. Io non so più come pormi al riguardo di questo problema. Sono orientato a credere che porsi in sudditanza del linguaggio sia un atteggiamento romantico, poetico e ormai fuori moda. Probabilmente il linguaggio è come una bestia, una sorta di cavallo che può condurti secondo i suoi programmi o che puoi condurre e ammaestrare secondo i tuoi. L’intero stesso mondo è forse il cavallo linguistico, e adesso che mi sembra di aver messo a fuoco il problema ho la certezza che sul nostro pianeta quasi tutto sia stato deciso tranne come porre il genere umano e la sua miracolosa impresa nei confronti di questa bestia che da millenni ci accompagna. Non che poesia, prosa, programmazione, danza, pittura e tutti i codici di cui disponiamo non bastino più, tutt’altro. Ma forse in certe derive artistiche, in certi esperimenti più recenti, in errori e in sogni come quello da me fatto possiamo intravedere un desiderio non altrimenti compiutamente espresso, un cenno dolce che il cavallo linguistico ci fa, come se volesse dirci che oltre al passo e al trotto esso può anche davvero galoppare, e così portarci per praterie mai viste oppure fermarsi, completamente, sul ciglio di tremendi ed eccitanti dirupi. O ancora, più oscenamente, il suo cenno ci suggerisce che se solo lo volessimo acconsentirebbe ad essere rivoltato come un calzino e che si farebbe volentieri trasformare in un’aquila al semplice tossire di una sillaba, così che perfino il suo galoppo possa trasformarsi in un volo da sogno, con l’abbandono - per tutti – della attuale dimensione espressiva, forse colorata, sì, ma meramente topografica, piatta come una vecchia mappa consunta. Avremmo la conquista di almeno una nuova, esplorabile, verticale dimensione per il da dirsi. L’iperspazio linguistico del Web è ancora poca cosa rispetto a ciò che intendo. Aspiro a una vera e propria pluridimensionalità del linguaggio in quanto tale! So che è possibile.

Quando studiavo giapponese dovevo allenarmi alla scrittura e riempire interi quadernoni di caratteri: ero già sull’uscio di questo desiderio. Gli ideogrammi, specialmente quando scritti con una punta molto doppia, mi sembravano assumere una vera e propria doppiezza spaziale. Alcuni sono molto complessi e spesso ho provato a disegnarli in assonometria o prospettiva. Fatto ciò ho provato a dar loro una impossibile autocompenetrazione, così che potessero diventare oggetti impossibili alla Escher ma pur sempre osservabili e leggibili da qualunque punto di vista, come a simulare una leggibilità in assenza di gravità. Per alcuni di essi questo metodo funzionava! Per altri mi sembrava di imporre loro un vero supplizio.

Mi sembra assurdo che l’innata capacità linguistica dell’uomo, forse la vera, unica e accettabile bandiera del genere umano, questa misteriosa capacità che ci distingue da ogni altro essere vivente e che ci ha portati nel giro di pochi millenni al picco massimo di protagonismo sull’intero pianeta non sia ancora diventata un argomento di conversazione usuale tra tutti noi oppure l’obbiettivo dell’unico vero discorso di emancipazione che ci riguardi. Ciò che ci rende uomini non è forse questa esclusiva capacità linguistica che trascende i limiti del corpo? Abbiamo composto poesie e creato segni matematici, lunghi romanzi e complesse formule, studiato i colori delle lingue vive e ricomposte quelle morte, ma oltre a tutto ciò non mi risulta che ci si sia mai interrogati su cosa davvero ci sia dietro a questo misterioso oggetto che è il linguaggio. È evidente che il linguaggio ci possiede (e non viceversa) e che non gli abbiamo mai chiesto altro. Mai ci siamo rivolti a esso direttamente e in modo organizzato chiedendogli: “c’è altro che vuoi mostrarci, vederci fare, sentirci dire, creare con l’aria?”, oppure “permetti che tiri un attimo questa briglia? Forza, cavallo, vola!”. Eppure i sogni – abilità misteriosa e più rimossa dell’atterraggio di un UFO - e taluni esperimenti artistici di grande genio quasi strappano questo velo di torpore, o di omertà – se si vuole – sulle reali possibilità del linguaggio. Sono fiducioso che presto avremo la rivoluzione linguistica che desidero. Queste mie stesse righe sono la prova di un moto che sale dal più modesto dei livelli.

Tornerò certamente ancora su questo discorso così centrale, perché è ovvio che la nostra capacità linguistica sia l’unica cosa davvero collegata alla nostra incapacità di intendere l’inintendibile.