E a ben vedere ci sono anche degli oggetti, forse delle pietre azzurre, che volano nella stanza, come orbitando ordinatamente attorno a centri di gravità irregolari.
15 Ottobre 2017
Alessandro Mavilio

Scendo da un’automobile e comincio a camminare in una zona suburbana. Mi guardo intorno e vedo Chikako, che in uniforme scolastica, scavalca un alta recinzione metallica per raggiungermi. Avrebbe potuto certamente uscire da un cancello, giacché usciva di casa sua per andare a scuola, ma per qualche motivo il suo comportamento sembrava suggerire un umore… grigio.

Lei comincia a camminare nella stessa mia direzione, probabilmente perché andiamo entrambi verso lo stesso luogo, ma a volte precedendomi, come se andasse di fretta o come per esprimere la sua distanza affettiva, e a volte ritardando il passo, per un motivo forse simile. Chikako sembra avercela con me. Le dico che vorrei baciarla ma lei mi fa capire che quell’opportunità c’è già stata in passato e io me la sono fatta sfuggire. Mi sembra che ci siano attorno a noi anche le due gemelle Shikata e forse Ayaka, della Sandai.

Entriamo a scuola e siamo dentro all’Istituto d’Arte “Palizzi” della mia epoca. Mi sembra che tutto sia ora virato al bianco e nero e c’è davvero tantissima gente, tra studenti, professore e genitori. Probabilmente è uno dei giorni in cui si fanno le iscrizioni. Entriamo in tante stanze, tutte affollate di persone come durante una ricreazione e c’è un gran vociare.

Poi assisto a una specie di proiezione.

Alla fine di questo evento mi trovo in compagnia di amici e conoscenti giapponesi, e tutti siamo per strada, ma in una stradina pedonale di una città che mi sembra antica o che forse è un’isola, tipo Capri o Ischia. Aleggia quella sensazione di provvisoria serenità, leggerezza e riconoscenza che si prova in certi viaggi, specialmente all’estero, quando i viaggiatori hanno l’ulteriore possibilità di allentare la pressione culturale costante che subiscono nel proprio Paese.

Saluto i miei amici e mi infilo in un portone ma mi trovo in un vecchio palazzo sconosciuto e semidistrutto. Percorro brevemente un corridoio polveroso e disastrato e sulla mia sinistra vengo attratto da una luce. C’è un’apertura nel muro e non saprei dire se fosse originariamente una finestra o ciò che resta di una successiva distruzione.

Questa apertura dà su una stanza quadrata dal soffitto molto alto e il mio punto di vista è anche abbastanza elevato. Anche questa stanza è molto malmessa, come se l’intero palazzo fosse stato bombardato. Ci sono cumuli di macerie e sottili detriti accumulati negli angoli e un’alta finestra spalancata proprio di fronte a me dalla quale posso vedere fuori. Ma la luce fuori è accecante, di tanto in tanto mi sembra di scorgere erba, a volte mi sembra di vedere un’ulteriore distesa di detriti. Dentro la stanza, in un angolo, c’è un nugolo di mosche che vola nervosamente formando una nuvola molto compatta.

Poi, in controluce, noto molta polvere in sospensione e a ben vedere ci sono anche degli oggetti, forse delle pietre azzurre, che volano nella stanza, come orbitando ordinatamente attorno a centri di gravità irregolari e magici, posti qua e là. Mi rendo conto che questa stanza non è una stanza normale. Faccio alcune foto col cellulare giocando con l’esposizione e poi decido di continuare a esplorare questo appartamento.

Mi volto sulla destra e osservo ancora questo corridoio scalcinato. Il palazzo è certamente dell’800 ma il mobilio ancora in parte presente è certamente degli anni Quaranta, come sopravvissuto alla Seconda Guerra Mondiale. Procedo per questo corridoio e mi trovo all’aperto, in campagna, ma a ben vedere è un grande orto cittadino, circondato da palazzi di tufo. Due persone abbastanza anziane che lavorano la terra si accorgono di me, alzano la schiena e mi sorridono. Io cammino verso di loro sul ciglio sterrato di un sentiero rialzato, come quelli che collegano le risaie.