Sulla Teoria dell'interfaccia
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IT 482 2021
Icone semplici per meccanismi complessi
Alessandro Mavilio

Non trar fuori il pesce dalle sue profondità. Gli strumenti (utili allo stato) non devono esser mostrati agli uomini.

Tao Te Ching, XXXVI




In una conferenza di molti anni fa, Terence McKenna, parlando di Taoismo, riportò di come il giovane partecipante a una sua conferenza ancora precedente, parlando anche lì di Taoismo, ebbe l'intuizione-illuminazione che il simbolo del Tao fosse di fatto quello di una "interfaccia".

Ora, quale sia stata l'originale profondità di quella intuizione, da parte di questo illustre e giovane sconosciuto, noi oggi non possiamo saperlo, ma sono convinto che aver accomunato i due concetti Taoismo-Interfaccia sia stato assolutamente corretto.

Negli ultimi trent'anni, la "Teoria dell'interfaccia" si è senza dubbio fatta strada, grazie anche al fatto che le assurdità filosofiche necessarie a teorizzarla non siano più appannaggio di scienziati e filosofi ma siano oggi sperimentabili nel quotidiano delle vite di tutti noi.

Oggi tutto si avvale di un'interfaccia e la nostra dipendenza da interfacce, per governare sistemi e meccanismi troppo complessi da conoscere in dettaglio, ci dà la possibilità di capire che il binomio "icona-meccanismo" non è preponderante esclusivamente nella nostra agiata vita digitale, ma lo si può effettivamente trovare dappertutto.

Va anche detto che la sorpresa di ritrovare interfacce dappertutto è direttamente collegata alla capacità di astrazione dei singoli, capacità di astrarsi da quella che è forse la più feroce necessità di interiorizzazione asservita alla sopravvivenza nell'ambiente.


L'icona di un software di computer o quella di una applicazione di smartphone sono l'interfaccia (simbolica) per avviare una successiva interfaccia operativa, per appunto operare un programma in maniera semplificata. Dobbiamo necessariamente ignorare l'originale linguaggio di programmazione ed esecuzione del programma se vogliamo trarne una immediata utilità.

Quotidianamente, dunque, solo usando un telefono o un computer, tutti accediamo a questa procedura facilitata per raggiungere il nostro utile scopo: controllare le previsioni del tempo, inviare un messaggio, riguardare una fotografia, ecc.

Ma lo stesso si può dire anche di interfacce più meccaniche e per nulla digitali.

Condurre un treno, operando alcune leve e osservando alcuni manometri, è un altro esempio di come l'utilizzo di interfacce semplificate (raggruppate, manipolabili, comprensibili) sia necessario affinché l'utilità di qualcosa sia portata ai massimi livelli, con il minimo grado di sforzo operativo. Ci si immagina a correre forsennatamente per lo stretto corridoio di un locomotore elettrico cercando di operare a mani nude i connettori di altissimo voltaggio per alimentarne i motori? Certamente no.

Ma lo stesso si può dire del "centralinismo telefonico". Una volta si connettevano i due capi di una linea telefonica salendo sulla cima di un palo di legno, poi, con la creazione di interfacce semplificate, il lavoro divenne appannaggio di signorine in tailleur che con alcuni spinotti su un pannello erano in grado di gestire traffici telefonici concitati. Oggi l'interfaccia necessaria a quell'operazione si è addirittura assorbita nel nulla invisibile...


La Teoria dell'interfaccia afferma chiaramente che la realtà quadridimensionale che ci circonda non è la realtà di base: è evidentemente una realtà illusoria ed emergente, non certo fondamentale. Lo spazio-tempo non può essere fondamentale perché è dimostrabile, con precisione matematica, che gli agenti coscienti e viventi che hanno la sfortuna o l'imperizia di percepire la realtà nella sua vera assurda completezza vengono posti fuori dai giochi, dall'ancestrale meccanismo evolutivo che sembra governare sul pianeta Terra.

Come dire che: "la Natura tollera i ficcanaso ma non li supporta attivamente".

La realtà delle cose e dell'ambiente che ci ospita ci è preclusa, accuratamente nascosta, da una regola fondamentale di sorta che, dati alla mano, sembra semplicemente fare in modo che noi non si muoia, scompaia, estingua (in quanto individui singoli e in quanto specie) vivendo in modo troppo stupido, allocando risorse mentali e fisiche che non siano direttamente utili alla nostra sopravvivenza.

Anche con lo sguardo del XXI secolo, la Natura sembra avere come primo scopo per noi quello della nostra riproduzione. Tutto il resto è decorazione.

In tal senso, scienza e filosofia, possono dunque essere intese come attività pericolose, peregrine e dissidenti. La Natura ci sembra suggerire, proprio con il suo silenzio, di non focalizzarci sull'indagine delle cose (e di sé!) bensì di darci pienamente al gioco della vita nel suo abbraccio.


Si specula da molti anni ormai sul fatto che il mondo possa essere una simulazione tecnologica di un qualche tipo. Ed è molto probabile che lo sia. Se lo è, ciò vuol dire che vi siano appunto una realtà, uno scopo, uno spazio e un tempo a noi nascosti e sconosciuti, proprio come lo spettatore accetta di seguire uno spettacolo teatrale incurante dei tempi e dei meccanismi che lo rendono possibile - e che noi, per tacito e gentile accordo, ignoriamo coscientemente per non infrangere il godimento della... simulazione.


Il forte suggerimento che si viva in una simulazione, non ce lo da solo la matematica delle probabilità e il fatto che si sia prossimi - in questa stessa dimensione - a una "singolarità tecnologica" in grado non solo di dimostrarlo ma perfino di dar vita alla nostra stessa capacità di generare universi simulati subalterni.

Ma quando le cose stian così, anche solo teoricamente, vien fuori dalla più banale osservazione che... sì, tutto è "interfaccia iconica semplice", subita, accettata, imitata, forgiata e utilizzata in tal modo proprio per nascondere meccanismi troppo complessi da poter essere espressi diversamente.

Perfino noi stessi possiamo definirci delle icone. Guardarsi allo specchio ne è una prova.

Se ci si guarda allo specchio senza chiedersi "cosa si vede" ma "chi si sta vedendo", ecco che ci si pone sull'orlo di un vero abisso concettuale. L'immagine riflessa di noi stessi è assolutamente muta - in termini di identità.

E' ovvio che si assiste all'immagine vacua di un involucro, ma quell'immagine non ci restituisce nomi, avventure, amori, timori, segreti. Nulla di nulla.

Proprio come nella metafora del linguaggio HTML, che costruisce i suoi documenti accoppiando una HEAD e un BODY, propri nella HEAD abbiamo i tag META, in grado di raccontare storie o imporre caratteristiche di identità che non siano necessariamente percepibili nel BODY.

Che la struttura del linguaggio HTML sia ispirata (a valle) alla struttura ben interiorizzata del corpo e dell'essere umano è ovvio! Ma non è sempre ovvio ipotizzare che probabilmente anche la struttura del sistema che ci ospita possa essere (a monte) del tutto simile: un modulo fisico e un modulo veramente metafisico. Si badi bene: non banalmente metafisico, non metafisico in termini concettuali, non "letteralmente metafisico" bensì seriamente metafisico; "meta" come tutti i ricordi, percezioni e segreti che albergano nella nostra mente, dati corposi che certamente non ignoriamo ma che anzi, senza timore di sbagliare, direi che sono la spinta alla quasi totalità di azioni che compie il nostro corpo fisico, più o meno coscientemente.


La nostra stessa immagine è dunque un'icona statica, che si fa interfaccia operativamente sociale per eventualmente interagire con gli altri partecipanti al gioco della vita. Ma è interessante notare quanto la nostra interfaccia esteriore sia esplicita per certi versi (età di massima, cura personale, qualità della pelle, taglio di capelli, accessori decorativi) ma anche assolutamente omertosa per quanto riguarda tutto il resto che sia vera identità e livello di coscienza.

Questa laconicità della nostra icona personale spiega anche perché alcune culture usavano - e ancora usano - marchiare il proprio corpo e il proprio volto: certamente per far sì che quel viso, quell'icona di carne, comunicasse di più di quanto la Natura non le permettesse. Oggi questa marchiatura è generalmente affidata a interventi reversibili e temporanei quali trucco, abbigliamento, ecc, che sembrano avere una connotazione per molti versi... giocosa.


Dunque, noi stessi siamo portatori ignari e distratti della regola principale che governa il nostro ambiente: quella di nascondere pur con tutta la nostra presenza la nostra realtà fondamentale (e quella delle cose, tutte) per rifletterne esternamente solo una minima parte, quella eventualmente utilizzabile da altri, per scopi che, pur con tutta la buona volontà e fantasia non possono debordare da quanto sia davvero previsto dal sistema, utile all'ambiente o ai suoi consociati.


Il Taoismo, che ci dice da sempre che "la Natura è silenziosa", nel passo qui riportato, afferma chiaramente che vi sono cose che - pur potendo - non conviene portare alla luce.

Per un libro che fa di tutto per portare alla nostra attenzione il concetto di "utilità", e di come questa utilità si trovi spesso tabernata in sub-concetti e azioni funzionali al "Vuoto" (concetti controintuitivi, per un uomo che evidentemente già alcuni millenni fa sembrava non sapere dove trovarsi) direi che è prova di stupefacente modernità e avanguardia.

Ed è sì un forte indizio che il concetto di interfaccia sia centrale alla comprensione della condizione umana sul pianeta da un bel po'.

Non trar fuori il pesce dalle sue profondità. Gli strumenti (utili allo stato) non devono esser mostrati agli uomini.