Faber Navalis è dunque il frutto di un percorso unico e prezioso, tuttavia la sua narrazione è particolare. Non vi è alcun commento parlato e gli unici suoni che si odono sono quelli direttamente prodotti dal lavoro, dagli utensili e dai materiali. Dopo pochi minuti di visione ci si può rendere conto di essere scivolati in una dimensione speciale. L’uomo che compare davanti alla macchina da presa sembra egli stesso essere diventato uno strumento: Borriello, che compare nel film intento nel suo lavoro, si rende egli stesso strumento affinché utensili e materiali possano raccontare le loro storie.
Prima di essere un documentario (o qualunque altra cosa si voglia) questo film si presenta (e si commiata) come una “pura esperienza”, fatta, narrata e offertaci dall’autore che, col suo silenzio, la sua forza e la sua appassionata precisione, ci conduce presto in un luogo mentale e culturale praticamente alieno – considerata la vita che mediamente ciascuno di noi conduce in questo XXI secolo... La Norvegia di questo film è lavata di ogni senso esotico, romantico o già conosciuto, e quasi non compare giacché l’intera narrazione si svolge sostanzialmente in un set di rimesse navali e nei suoi immeditati esterni; un luogo sostanzialmente non diverso da un più classico teatro di posa.
Il lavoro di Borriello procede in concentrata solitudine e pur essendo, il suo, un progetto certamente entusiasmante – la restaurazione di una nave d’epoca – a molti di noi esso può apparire lontano, in ogni senso. Tuttavia qualcosa dal film evapora e ci invade, ci irrora e ricopre, quasi come metafora tele-percettiva di schegge, segatura e lapilli incandescenti.
Qualcosa di questo film promette la migliore comprensione di qualcosa. Diversi significati, normalmente dati alle cose, sembrano riallinearsi in una nuova compagine di senso. Non vi è forse nel lavoro, qui precisamente narrato, l’onesta e cristallina descrizione di una antichissima simbiosi tra strumenti? Non è stato, e ancora è, il mare stesso uno strumento, un mezzo per l’uomo? Non è forse la nave lo strumento più adatto a solcare lo strumento mare? Non è l’uomo il modo/mezzo/strumento necessario a pilotare la nave strumentale? E in una infinibile lista di strumenti grandi e piccoli non troviamo forse tutti gli strumenti che Borriello utilizza per rimettere a nuovo la sua nave? E quando un più adatto strumento non è disponibile, non vediamo forse Borriello usare altri strumenti per costruire lo strumento che manca?
Faber Navalis mi ha posto di fronte alla storia – muta ma non sorda – dei migliori amici dell’uomo – quelli che fanno e hanno fatto l’uomo: gli strumenti. E pur sapendo di esagerare mi sembra di vedere in Borriello la più prossima e candida metafora dell'intelligenza artificiale di cui oggi ancora troppo timidamente si parla.
Gli strumenti – tutti – sono i protagonisti di questo film: ben operati si rivelano ben operosi. Per questo motivo, forse, non occorrono al film parole né dialoghi. Sintonizzandosi su forme e suoni di tutti gli strumenti il film si rivela partitura musicale, pittorica e fotografica più che completa. E fortunatamente il film non indugia in alcuna forma culturale riconoscibile e riportabile. A dispetto del suo curriculum non vi è particolare peso per Norvegia, Finlandia, Indonesia o Africa che siano. Si narra della simbiosi tra strumenti e un tale discorso comporta necessariamente la tabula rasa di quanto di più sovrastimato (relativo e provvisorio) esista su questo pianeta: le culture umane. Potendo cassar via l’intera cultura umana dal discorso (e ciò può certamente esser fatto agilmente solo grazie alle libertà oniriche di un film) è possibile mettere a fuoco ciò che realmente è in atto sulla Terra: un principio strumentale che requisisce, adotta, immagina e costruisce strumenti, li mette nella morsa più adatta e dona loro motivi di vita novelli, strumenti prima inimmaginabili, spesso finanche grandiose missioni. È forse l’uomo – attualmente, ci piaccia o meno – lo strumento degli strumenti, in senso autoritario ma – si badi bene – anche nel senso più servile del termine. È il racconto di una simbiosi con qualcosa, forse del bacillo dell’intelligenza, del desiderio planetario di movimento e fuga. E ciò che Faber Navalis condensa nei suoi 30 minuti è semplicemente la storia animata del fantasma dell’intero Pianeta Terra, un pianeta che non a caso dallo spazio appare blu.