
Il regista condensa attorno a sé un soggetto, una trama, scenografie e attori per confezionare un prodotto narrativo attraverso la tecnica sublime del cinema, che di per sé è tra le più aderenti e avvolgenti alla percezione che tutti abbiamo della realtà.
“Cinema” per lo spettatore significa infatti “rapimento, trasferimento, immobilizzazione, ipnosi e pillola allucinatoria”. Si tratta di un sistema narrativo – a ben vedere – di estrema e autorevole violenza, per giunta, ben accetto dal genere umano.
Ma il lato più diabolico, coercitivo e violento del fare cinema è senz’altro nel periodo delle riprese.
Il concetto di tempo, di narrativa e creazione vengono stravolti principalmente per assecondare un principio di economia e ottimizzazione delle ingenti risorse necessarie alla produzione.
In tale processo, materiali, ambienti e personale (recitante e tecnico) vengono utilizzati e sfruttati ai limiti dell’umanamente tollerabile. Si tratta di uno sfruttamento superiore e più profondo di quello al quale vengono assoggettati gli operai di altre industrie, poiché - e proprio perché - il prodotto finale per cui tutti lavorano è un prodotto narrativo che si avvale di materiali umani disumanizzati.
Sì, vi è una sorta di schizofrenia nel mestiere di attore, e dunque ci troviamo tecnicamente di fronte allo sfruttamento, da parte di pochi, di personalità schizofreniche, per l’estremo arricchimento di pochi.
Ma poi, oltre a questo àmbito superficiale, vi è un ulteriore livello diabolico che riguarda i film i cui registi riescono a gestire le meta-emanazioni del film che stanno dirigendo.
Un esempio lampante è “Eyes Wide Shut”, di Stanley Kubrick, un film scarso, per nulla in linea con i precedenti film del regista, con una pessima fotografia, movimenti di macchina tecnicamente grezzi, una recitazione certamente, volutamente, esageratamente “fuori zona”, un montaggio che manca di decoro, e tante altre sciatterie, più o meno scusabili. Molto scusabili!
Infatti questo film ha una forza unica, e non per il racconto che ci offre o per le relative e irresistibili implicazioni sociali.
Non credo che il fuoco di questo film sia quello di esporre le elite e i loro rituali, non credo che un regista che nel suo passato abbia esplorato e inchiodato temi di abissale profondità per l’umanità si sia accontentato di fornirci uno scoop sociologico. Avverto invece – nell’esistenza di quest’opera – la presenza di un livello amplissimo, superiore e ultimo che avvolge metaforicamente l’esperienza umana nella sua interezza.
In un certo senso, poiché il cinema è forzatamente “sfruttamento diabolico” di un qualche tipo di ogni suo elemento costitutivo, perfino il narrarci e l’introdurci a una società segreta deve essere una metafora, non certo il punto di arrivo stimato e voluto da Kubrick.
È mia forte opinione che: il motivo per cui un tale film fa ancora breccia dopo tanti anni su un largo settore sociologico di pubblico è perché bisbiglia qualcosa a tutti, al netto del suo scoop pseudo - massonico. E no, non si tratta nemmeno della risonanza che tutti potremmo avere con i temi della gelosia, del sesso, della genitorialità, del consumismo, delle fantasie che toccano o minacciano la realtà…
Temo che questo film, come molte opere finali di altri registi, sia una denuncia da parte del regista del mezzo stesso utilizzato per tutta la sua carriera. Tutti i grandi registi sanno di aver agito per decenni in termini divini e diabolici, e quest’opera in particolare, sebbene racconti genericamente di un medico, di una casalinga e del loro giro sociale di amici dell’alta società, denuncia il diabolismo del cinema in quanto mezzo, più che quello di Hollywood in quanto industria, ma lo fa ammiccando a Hollywood con una… debordazione.
La scelta della coppia Cruise-Kidman è infatti a mio avviso la mossa furba che afferra Hollywood per farne una ulteriore metafora esterna alla narrativa, ma non certo la protagonista del messaggio finale. La scelta di inquinare il proprio film con una "coppia di fatto" globalmente riconosciuta come reale, spinge il film nel territorio del documentario, costringe lo spettatore a non rilassarmi mai nel meccanismo psicologico e avvolgente della finzione. Si è sempre con un piede fuori dal veicolo guardando questo film.
Provo anche umana pena per Tom Cruise e Nicole Kidman, i quali,sebbene abbiano accettato il loro ingaggio per partecipare professionalmente al film di un grande regista, non sapevano - e forse ancora non sanno - quanto le loro anime siano state sfruttate al solo parteciparvi.
I protagonisti di questo film non sono altro che perni di comodo per far girare un messaggio giostroso altrimenti incomunicabile. E i dialoghi e i tempi recitativi,troppo spesso innaturali e a loro imposti dal regista, sono pura,comprensibile villania. Al servizio della denuncia.
Il cinema è diabolico.